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Poesie dopo la festa

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Dalla rabbia alla benedizione: il percorso del poeta Alessandro Mantovani 

 

Non c’è bisogno di leggere la breve nota bio-bibliografica di Alessandro Mantovani a pagina 71 di  “Poesie dopo la festa” per capire che ci troviamo di fronte alla poesia di un giovane autore. E non perché vi sia una qualche acerbità nella sua cifra stilistica (la quale, invece, appare così matura da permettergli di giocare con lemmi e suoni, di inventarli o di ridare nuova vita ai vecchi) o  nelle tematiche affrontate  (ché, anzi, i nuclei concettuali intorno ai quali gravitano i versi sono di rilevante portata esistenziale), ma perché vi domina un’energia impetuosa e vitalissima, propria dell’età fra adolescenza e maturità.

Si tratta, insomma, di una sorta di traboccamento del sentire incapace di coincidere con la vita in sé, della quale tenta l’ oltrepassamento attraverso la disubbidienza e  la  trasgressione fino a sfiorare quel desiderio di morte più simile al corteggiamento di un’altra dimensione ampia e profonda e ad una necessità di rinnovamento interiore (il suo emblema è la vastità dell’Oceano, là dove i fiumi vanno a morire per perdere i loro argini ed espandersi) che ad una vera volontà di annullamento fisico.

L’acqua costituisce la più importante delle figure nate dall’esperienza  biografica di questo poeta genovese, trapiantato da qualche anno a Bologna, ma vissuto per un certo periodo di tempo anche in Portogallo, la nazione europea più spalancata ai viaggi per  mare, la più gravida di avventure e partenze.

Nelle  città portoghesi, presso le rive del fiume Douro, nei bar, per le strade, spesso solo davanti ad un bicchiere di vino, egli prende consapevolezza della necessità di lasciare fuoriuscire,  “rovesciare/ruzzolare precipitare”  il peso del  suo dolore,  affinché possa ritrovare l’ “accordatura” con il resto del mondo, come sembra suggerirgli lo sguardo di un vecchio bove (esso risuscita nella memoria quello carducciano insieme alle domande leopardiane sul dolore rivolte alla luna dal pastore errante)  mentre rumina “presso lo stomaco del fiume”.

La risposta viene dalle stesse acque in cui il poeta ha rischiato un naufragio (immagino più simbolico che reale, anche se l’impulso a fare è sempre un accadimento importante per la psiche):  quelle alla Foz de Douro, da cui scampa, per poi gridare: “sono vivo, di nuovo”.

La presenza del mare non manca nemmeno nelle due sezioni seguenti. (E lascio volutamente da parte la quarta, quell’ Immemoris memor, costituita da un solo poemetto, avente un compito di raccordatura con le precedenti,  delle quali è, di fatto, una sintesi in versi, ma non solo, come più avanti dirò).

Nella seconda sezione,  Morfologia  &  Sintassi, il mare torna come simbolo e memoria, poiché a Bologna, dove  Mantovani ha  scritto questi testi, il mare non c’è. Eppure conchiglie, meduse, alghe, reti da pesca, spigole e merluzzi, ricci di scoglio, barche e gabbiani affollano  molti versi risalendo la corrente del tempo e metamorfizzandosi  in emblemi: le conchiglie , per esempio,  rappresentano  i giorni assaliti dalle forze erosive, “zigrinati”,  ma allo stesso tempo una voce altra, “fuori dal mondo”;  spigole e merluzzi sono “gli errori impigliati nella rete” “che non abbiamo forza a bastonare”; e le alghe tutte quelle cose che ci crescono dentro “nascoste e spudorate”.

Il mare, insomma,  rappresenta la profondità, l’abisso del nostro io che invita ad un viaggio di autoconoscenza dal quale riemergere  con una più piena consapevolezza di sé.

Nella terza sezione, Piovane, il viaggio del poeta, però, non è per niente ameno: il tono narrativo si fa  più tetro e grigio così come l’atmosfera dei luoghi cittadini sempre battuti e quasi infradiciati dall’acqua piovana.

Il lettore viene coinvolto all’interno di uno sperimentalismo linguistico, che, lontano da qualsiasi intento ludico, sembra piuttosto contribuire a disegnare un doppio percorso, sia al di sotto del mondo  reale, allo scopo di comprendere i monstra del proprio brodo primordiale interiore, simili a “bestie protozoiche/ amorfe e scodazzanti”;  sia sulla sua superficie usando come vettori dei propri sentimenti  i suoni, spesso striduli e lancinanti, di molti vocaboli presi in prestito da ogni dove, quasi che la parole del quotidiano e della letteratura non bastassero.

E giungiamo dunque all’ultima sezione di cui s’era fatto cenno, quell’ Immemoris memor, in cui accade una svolta importantissima dal punto di vista psichico e linguistico. Infatti, tutto quel materiale autobiografico, ribollente e in cerca di sistemazione anche espressiva,  appare finalmente come digerito e distanziato, al punto che l’autore immemoris memor può darne una valutazione assai più benevola.

È il momento dell’accoglimento, dell’accettazione, della comprensione della funzione del dolore nell’evoluzione di sé stesso come uomo e poeta. Da qui quel tono da laude francescana con il quale Mantovani benedice ogni cosa e persona e luogo e memoria con le parole chiare della consapevolezza e dell’amore, che gli fanno dire all’inizio dell’ultima strofa: “Benedetto e santo tutto/ nella memoria, dove vite ripetute/ sempre gli stessi gesti,/ dove sono sempre anch’io”.

 

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